Malattie lisosomiali: malattia di Pompe


La malattia di Pompe, o glicogenosi di tipo II, è una malattia da accumulo ad ereditarietà autosomico recessiva, causata da deficit dell’enzima alfaglucosidasi acida lisosomiale.
L’enzima, codificato dal gene GAA, situato sul cromosoma 17q23, è deputato alla scissione del glicogeno all’interno dei lisosomi in varie cellule ed in particolare nella muscolatura scheletrica, cardiaca e liscia.
La sua carenza comporta il progressivo accumulo di glicogeno in questi tessuti, con conseguente danno muscolare ed insufficienza di funzione.

Riguardo alle manifestazioni cliniche c'è un continuum fenotipico che va dalla forma infantile classica, acuta e rapidamente fatale, a quella ad esordio tadivo, giovanile ed adulta, ad evoluzione più lenta.

La forma infantile classica insorge nei primi mesi di vita e si presenta con un importante coinvolgimento della muscolatura cardiaca, con cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva ( immagine radiologica tipica di cuore a palla ), respiratoria ( soprattutto diaframmatica ), con progressivo instaurarsi di una grave insufficienza respiratoria e scheletrica, con ipotonia generalizzata ( floppy infant ).
La sua storia naturale è caratterizzata dalla rapida evoluzione ad esito fatale.

Le forme a esordio tardivo con danno muscolare prevalentemente a carico dei muscoli scheletrici e respiratori, mentre il cuore è in genere risparmiato.
L’evoluzione di queste forme è più lenta, ma la progressiva insufficienza muscolare porta nel tempo ad un’impotenza funzionale respiratoria e della deambulazione, con necessità di un supporto ventilatorio e dell’uso della sedia a rotelle.
L’exitus è in genere dovuto a complicanze respiratorie.

Sotto l'aspetto epidemiologico, la malattia di Pompe presenta una incidenza stimata di circa 1:140000 per la forma infantile e 1:50000 per la forma ad esordio tardivo.

La diagnosi di malattia, posto il sospetto clinico, può essere effettuata tramite dosaggio enzimatico su leucociti, fibroblasti o biopsia muscolare.

L’analisi molecolare del gene GAA può aiutare in un processo di counselling familiare e nella definizione fenotipica.

La terapia enzimatica sostitutiva, che si basa sulla somministrazione endovenosa di Alfaglucosidasi ricombinante ( Myozyme ), è stata approvata nell'Unione Europea e negli USA nel 2006.
Il trattamento con una dose di 20 mg/kg a periodicità bisettimanale, si è dimostrato efficace nell’aumentare la sopravvivenza e migliorare la funzionalità muscolare, soprattutto nelle forme infantili.
La terapia non è tuttavia in grado di correggere totalmente il danno muscolare preesistente e molte questioni restano tuttora aperte in merito al miglior momento per iniziarla, alla sua efficacia a lungo termine e alla possibilità di trattamenti coadiuvanti che ne possano potenziare l’effetto.

I dati della letteratura fin qui disponibili, hanno mostrato una migliore efficacia della terapia enzimatica sostitutiva sul muscolo cardiaco rispetto a quello scheletrico.
Un motivo potrebbe essere legato alla maggior densità dei recettori per il mannosio 6 fosfato, chiave d’ingresso cellulare dell’enzima, nei cardiomiociti rispetto alle fibre muscolari periferiche.

La natura proteica dell’enzima infuso può indurre reazioni anticorpali che possono ridurne l’efficacia. Il fenomeno è molto marcato in quelle forme infantili classiche con attività enzimatica residua assente ( cosiddette CRIM negative ) che, dopo l’inizio della terapia enzimatica sostitutiva, sviluppano precocemente alti titoli di anticorpi neutralizzanti, con prognosi infausta.

Un altro elemento che può condizionare la risposta terapeutica è il dosaggio standard di 20 mg/kg a infusione, che per la rapida captazione cardiaca ed epatica dell’enzima può essere inefficace per raggiungere omogeneamente tutte le aree muscolari interessate dall’accumulo.
Dosaggi più elevati sono stati utilizzati nei pazienti con la forma infantile, ma non è stato ancora dimostrato un chiaro beneficio.

La terapia sembra dimostrare maggior efficacia quando iniziata precocemente, ovvero prima che si instauri un danno muscolare irreversibile.
Tuttavia, la malattia viene spesso diagnosticata in fase avanzata, con un ritardo rispetto all’insorgenza dei primi sintomi di mesi o anni, precludendo così un trattamento tempestivo.

Altro elemento importante per la risposta terapeutica è il possibile coinvolgimento di altri attori, oltre all’accumulo di glicogeno, nell’evoluzione della malattia. In questo senso un ruolo patogenetico fondamentale sembra venir svolto dall’autofagia.
L’autofagia è un processo fisiologico tramite il quale le cellule veicolano proteine ed organelli cellulari danneggiati verso i lisosomi, per la loro scissione e riciclaggio, mediante la formazione di vescicole dette autofagosomi.
Tramite microscopia elettronica si è potuto osservare come le cellule muscolari affette da malattia di Pompe presentino un accumulo anomalo di autofagosomi, probabilmente collegato ad un malfunzionamento del processo autofagico. Questo non solo danneggerebbe le fibre muscolari, distruggendone la normale architettura, ma impedirebbe anche il corretto targeting dell’enzima esogeno all’interno delle cellule, che non riuscirebbe a raggiungere la sede di destinazione, ovvero il lisosoma, restando intrappolato nell’area autofagica. ( Xagena_2014 )

Fonte: Centro di Coordinamento Regionale per le Malattie Rare - Ospedale Santa Maria della Misericordia, Udine, 2014

Xagena_Medicina_2014